"Terapie riparative"? NO, grazie.

Pubblicato il da Cinzia Funicelli Maria Lepri

Importanti mutamenti si stanno verificando nel tessuto sociale, nella struttura familiare e nel modo di considerare l’espressione dei sentimenti, per cui sembra doveroso da parte di psicologi e psicoterapeuti dichiarare, rispetto alle cosiddette “terapie riparative” dell’omosessualità, la propria posizione professionale, che dovrebbe essere completamente in linea con quella della comunità scientifica internazionale e dell’Ordine degli Psicologi.
Mentre da un lato si assiste a un significativo movimento verso il riconoscimento dell’omosessualità come un’espressione sentimentale/sessuale che non può che avere gli stessi diritti civili di quella eterosessuale (il referendum irlandese, la risoluzione del Parlamento Europeo di Strasburgo, il dibattito persino italiano sulla necessità di riconoscere le unioni omosessuali), dall’altro lato permangono in alcuni ambienti preoccupanti posizioni retrograde, che si discostano da quelle ufficiali della comunità scientifica.
Anche in Italia, infatti, si sente parlare di “terapie riparative” e ogni tanto spunta fuori qualche terapeuta o sedicente tale che le mette in atto con l’obiettivo di “riparare” un omosessuale, cercando di renderlo eterosessuale. Queste presunte terapie, ideate dallo psicologo statunitense J. Nicolosi, interpretando in maniera distorta la teoria psicoanalitica, partono dal presupposto che l'orientamento omosessuale sia una “ferita” da riparare, e a tal fine mettono in atto una serie di discutibilissime tecniche (dal condizionamento avversivo all'uso della preghiera) per reindirizzare l'orientamento sessuale verso l'eterosessualità.
Anche se gli ambienti in cui si praticano tali “terapie” sono ristretti, e sono legati più che altro ad associazioni religiose e non professionali, è giusto sottolineare e ricordare che, secondo l’American Psychological Association e l’American Psychiatric Association, e quindi secondo l’intera comunità scientifica, tali “terapie” sono da considerarsi dannose per le condizioni psichiche di chi vi si sottopone (non vi sono prove della loro efficacia, anzi, vi sono prove del fatto che siano potenzialmente lesive), e inoltre rinforzano stereotipi e pregiudizi nei confronti delle persone omosessuali. Non sono terapie accreditate dal punto di vista scientifico. E non riparano alcunché, perché non si può curare ciò che non è malattia. Non c’è nulla da riparare, insomma.
Già nei suoi lontani anni, Freud aveva scritto in una lettera, rispondendo a una madre che gli chiedeva di curare il figlio omosessuale, che l’omosessualità “non è certo un vantaggio ma non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come malattia”. Eppure, per molto tempo è stata considerata un disturbo mentale, prima come disturbo sociopatico della personalità e poi come deviazione sessuale, tanto da essere inclusa nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), e uomini e donne omosessuali sono stati a lungo oggetto di discriminazioni e pregiudizi. Con il passare del tempo, molto è cambiato, sia nell’ambito del dibattito sui diritti civili, sia nell’ambito della salute mentale. Nel 1973 l’omosessualità egosintonica, ovvero accettata serenamente dalla persona, è stata rimossa dalla settima ristampa del DSM II; nel 1987 è scomparsa definitivamente dal DSM III – R anche l’omosessualità egodistonica, cioè quella non accettata dal soggetto. Infine, nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha depennata definitivamente dall’elenco delle malattie mentali.
Le posizioni riparative che permangono nonostante le dichiarazioni dei più importanti organismi che operano per la salute mentale, sono da considerarsi posizioni isolate da cui la comunità scientifica si dissocia.
Al di là delle cause che potrebbero aver determinato una scelta omosessuale e che teorie e autori hanno cercato di identificare, ciò che si sostiene con sicurezza è quanto ribadito anche dall’Oms, e cioè che l’omosessualità debba essere considerata “una variante naturale del comportamento umano”. Nel caso dell’omosessualità egodistonica e delle persone che soffrono per la propria omosessualità, la convinzione condivisa dalla maggior parte dei professionisti della salute mentale è che tale sofferenza sia dovuta all’interiorizzazione dei pregiudizi e dell’ostilità sociali e che, di conseguenza, un percorso psicoterapeutico dovrebbe mirare ad aiutare la persona a superare tali pregiudizi per poter vivere serenamente la scelta omosessuale.
In generale, rispetto a questo specifico argomento e non solo, gli psicologi dovrebbero avere sempre in mente l’articolo 4 del loro Codice deontologico, che recita: “Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi. (…)”
In conclusione, psicologi e psicoterapeuti non “riparano”.

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