“Viva la sposa”. Il cinema ai “margini”
Pubblicato il 2015-11-03 19:45:00 da Cinzia Funicelli
Il destino dei film indipendenti sembra essere questo, sopravvivere malamente nel marasma delle pellicole consolatorie dai sentimenti facili e dalle verità comode, essere scartati a vantaggio di effetti speciali e realtà vellutate, rimanere in ambienti di nicchia senza mai riuscire ad arrivare alle masse. Eppure, si tratta dei film che più scavano nell’animo umano, senza sconti e quasi sempre senza l’happy end, regalando allo spettatore fotografie di realtà che troppo spesso vengono ignorate.
Dedichiamo volentieri, quindi, uno spazio alla preziosa pellicola di Ascanio Celestini, nel desiderio di contribuire al ricordo di essa e di accennare agli importanti spunti di riflessione di ordine socio-psicologico che vi si ritrovano.
Morbido e crudo, poetico e realista, disincantato ma vitale, delicato ma sincero, “Viva la sposa” ci fa entrare e sostare in un semplice bar del Quadraro, uno di quei bar in cui bivaccano ogni giorno sempre le stesse persone, perdigiorno, anziani curiosi, gente che ha perennemente un bicchiere in mano e guarda distrattamente la televisione. Proprio il tipo di bar in cui normalmente non ci si ferma se non si è del posto o se non si è clienti abituali, eppure è il microcosmo in cui si potrebbe osservare l’umanità più varia e più vera, quella che sta al confine tra la malinconia e la disperazione, tra la legalità e l’illegalità. Quante volte saremo entrati in bar di questo tipo nelle periferie o nei quartieri più popolari, e quante volte avremo distolto lo sguardo da uomini ubriachi e donne sciatte. Meglio non vedere, non andare oltre la comodità. Meglio pensare che siano in tali condizioni per scelta loro, senza immaginare il disagio, la mancanza di risorse, l’indifferenza delle istituzioni, che possano aver contribuito al loro incancrenirsi. Nel bar del film, invece, siamo costretti a rimanere e a sbirciare nelle complesse esistenze dei suoi avventori, riconoscendo quanto siano vere.
Nicola è una sorta di poeta di strada, guadagna qualche soldo facendo spettacoli per i bambini, il resto del suo tempo lo passa bevendo al bar, anche se è convinto di smettere di bere quanto prima. Ha addosso sempre lo stesso cappotto, e in quel cappotto coltiva un’illusione. Non è un barbone, ma sembrerebbe avere l’animo di un barbone, lontano com’è dalla società adattata e dai suoi ritmi. Va in giro con il suo furgoncino e una perenne leggera ubriacatura, sorridendo malinconicamente alle storture che vede intorno a sé. Attraverso il suo sguardo buono e il suo animo vibrante di pietas, ci vengono raccontate le storie tristi, eppure dense di dignità, delle persone che casualmente o meno Nicola incontra nel suo girovagare. Salvatore, l’adolescente grassoccio di cui si prende cura, figlio di un’amica prostituta, e forse anche figlio suo, chissà; Anna, l’amica prostituta, che si rivolta al pappone in uno scenario quasi pasoliniano; Sasà, che vive truffando le assicurazioni, e a cui toccherà la sorte più atroce, urlando di dolore in una questura; Sofia, l’amore mai approfondito, chiamata così dal padre in onore di Sofia Loren, e che entra ed esce dal bar lasciando scie di malinconia. Tutti personaggi di cui non viene raccontato molto, ma di cui vengono fotografati l’impotenza attuale e gli sguardi che non si arrendono, e basta ciò a renderli familiari e cari allo spettatore, nonostante le loro debolezze e le loro mancanze.
La storia che viene narrata nel film è, quindi, un puzzle di storie e di narrazioni, che solo apparentemente non hanno un nesso tra loro. Attorno a tali storie, emergono qua e là sfuggenti accenni al quadro sociale che stiamo vivendo, riferimenti non casuali agli immigrati che nell’immaginario collettivo dovrebbero venire sempre dai barconi, e che invece nascono pure a Roma e parlano romanesco, l’odio nei confronti dei cinesi, la paranoia di alcuni genitori che il proprio figlio diventi “frocio”, la finzione di certi salotti “bene”. E infine, il doloroso accento sull’abuso di potere che può essere perpetrato dalle forze dell’ordine nei confronti dei più deboli. Un accento che sembra arrivare improvvisamente nell’architettura del film, e che per alcuni è stato una forzatura retorica, ma che a ben guardare rientra perfettamente nella narrazione. Non può esserci un lieto fine, con certi presupposti e in certi contesti, e alcune cronache lo raccontano. Perché raccontare favole, dunque?
La favola che fa da contraltare a tanto verismo è la figura della sposa, la bella attrice americana che trascorre il viaggio di nozze in Italia e che in abito bianco gira per il Bel Paese, circondata da un alone di apparente purezza, felicità e perfezione. Le immagini della sposa scorrono di continuo nella televisione del bar del Quadraro, mostrando agli avventori una realtà finta, eppure agognabile, idealizzabile, appetibile. La sposa, così bella, così bionda, così bianca e pura, che gira per le vie de L’Aquila terremotata, sostenendo di portare conforto alla città ferita, sembrerebbe rappresentare quanto di vellutato, e di finto, sia lontano dall’orizzonte di certe esistenze sfortunate e poco adattate.
La sposa è la finzione del benessere, l’illusione che possa esserci qualcosa di meglio, ma questo qualcosa è troppo perfetto per poter essere raggiunto, quindi non può incitare all’azione e al miglioramento, ma appiattisce e paralizza, così come sembrano paralizzati gli affascinanti personaggi del Quadraro, che rimangono a vivere ai margini della società e a bocca aperta guardano la sposa correre tra le macerie de L’Aquila.
E la sposa forse è anche il cinema altisonante dei grandi nomi e delle grandi produzioni, riempito di contenuti vuoti e problematiche ammorbidite, che spinge da parte il cinema indipendente che provoca prurito e sapientemente crea l’illusione della finzione.
Forse, infine, si tratta di quella negazione degli affetti spiacevoli che sembra coglierci quando distogliamo lo sguardo da un barbone, o dai nostri stessi dolori. Quando pensiamo “Viva la sposa”, ossia, viva l’artificio che non fa pensare e la televisione che anestetizza. Quando ridiamo di una debolezza altrui, pur di non sentire la nostra. Quando disprezziamo chi ci appare diverso, per paura che possa in realtà assomigliarci. Quando ci sediamo in un salotto recitando una parte, e non ascoltiamo quell’altra parte di noi che sceglie di vivere ai “margini”.
Quando seguiamo un ideale finto che blocca la creatività e pure la compassione, e alla riflessione preferiamo il pieno che riempie.
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